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I Post di Divagazionipertinenti

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  • erbefiori
  • 13 mar
  • Tempo di lettura: 3 min

Nel I-III secolo d.C., in epoca ormai tardo ellenistica, compaiono gli scritti di Ermete Trismegisto, un personaggio cui si attribuiscono un insieme di scritti su pratiche magiche e astrologiche e su speculazioni filosofiche e teologiche. Questo insieme di documenti che prende nome di Scritti Ermetici diventa fonte di ispirazione del pensiero ermetico e neoplatonico rinascimentale.

Sembra un’opera elaborata da diversi estensori per la mancanza di uniformità e per l’onnisciente sapienza del platonismo, stoicismo, gnosticismo, manicheismo, cristianesimo e per la conoscenza vasta e profonda della cultura iranica e soprattutto di quella egizia. Sembra scritta anche per far fronte alla crescente influenza del cristianesimo.

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La figura di Ermete Trismegisto sembra un'elaborata sintesi del dio greco Hermes e del dio egiziano Thoth. Platone ne parla in due diverse opere. Platone scrive che Hermes è dio interprete, messaggero, ladro, ingannevole nei discorsi e pratico degli affari, in quanto esperto nell'uso della parola; suo figlio è il logos (Platone. Crat. 408d). Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto [Platone. Phaedr. 274c] È difficile stabilire quando i caratteri delle due divinità si amalgamano in un’unica realtà, cioè quando avviene l'identificazione di Hermes con Thoth. Comunque nel I secolo a.C. questo fenomeno è già ben congeniato. Cicerone elenca ben cinque divinità di nome Hermes di cui il quinto è quello propriamente identificato con Thoth. Il quinto, che è adorato dalla gente di Feneus, si dice che abbia ucciso Argo e quindi se ne sia fuggito in Egitto, dove dette agli egiziani le leggi e la scrittura. Gli egiziani lo chiamano Theuth, che è anche il nome del primo mese dell'anno secondo il loro calendario [Cicerone, De natura deorum, III 56].

Ermete è una figura ambigua, in parte divina e in parte umana, forse un dio o forse un umano con un qualche afflato divino, Platone fa sorgere questi dubbi quando scrive: dopo che un dio o un uomo divino capì che la voce è molteplice, in Egitto una leggenda narra che questi fu un certo Teuth (Platone, Filebo, 18b). Dunque, Ermete Trismegisto, divino o semidivino, porta il nome del suo antico antenato divino: Ermete, del quale io porto il nome avito, non abita forse nella sua città nativa, che prese il nome da lui [Hermoupolis], là dove si recano i mortali provenienti da ogni parte, per avere aiuto e protezione? [Asclepius, §37]. Sembra quindi sdoppiarsi la figura di Ermete Trismegisto, nell'avo divino e nel profeta di natura umana. Dell’appellativo Trismegisto [Hermes ter maximus], cioè tre volte grandissimo, dà atto Marsilio Ficino nell’Argumentum che precede il Pimander, opera in quattordici libri in lingua greca, tradotta nel 1463, appunto, da Marsilio Ficino: Trismegistus vero ter maximum … philosophus maximus, sacerdos maximus, rex maximus. D’altra parte è ormai consolidata la tradizione medievale che parla di un "Hermes Triplex", re filosofo e profeta. Esiste anche un interessante passo di Marziale (Epigr. V, 24, 15) in cui si afferma che Hermes omnia solus et ter unus. Questa affermazione, risalente all’89 d.C. è vaga e approssimativa perché tre volte uno non è sinonimo di tre volte grande.

ermete trismegisto e la tavola smeraldina , duomo di siena

Ermete Trismegisto mostra ai discepoli la Tavola smeraldina che contiene la summa totalis del pensiero alchemico. Duomo di Siena.

In ambito simbolico, Ermete Trismegisto, rappresenta il mago degli arcani maggiori dei Tarocchi. La conoscenza profonda della natura e del tutto fanno di lui una figura ambigua, in parte divina e in parte umana, forse un dio o forse un umano con un qualche afflato divino.

La mandragora è una pianta di forte connotazione umana, è una zolla di terra che si anima e diventa uomo con grande stupore del contadino che ara la terra, però non diventa un uomo qualunque, ma un uomo che predice il futuro.

Publio Ovidio Nasone ne Le metamorfosi [XV, 553 …] scrive: … il loro stupore non fu diverso da quello del contadino etrusco che vide in mezzo ai campi la zolla fatale muoversi spontaneamente, senza che nessuno le desse l’impulso, e poi perdere l’aspetto di terra e assumere quello d’uomo: d’un uomo che schiudeva la bocca che da poco possedeva per vaticinare l’approssimarsi fatale degli eventi. Gli indigeni lo chiamarono Tagete ed egli fu il primo a insegnare alla gente Etrusca il modo di prevedere il futuro. Di Tagete ne parla pure Cicerone nel De divinatione [II, 53]: Si dice che un contadino, mentre arava la terra nel territorio di Tarquinia, fece un solco più profondo del solito; da esso balzò su all'improvviso, un certo Tagete e rivolse la parola all'aratore. Questo Tagete, a quanto si legge nei libri degli etruschi, aveva l'aspetto di un bambino, ma il senno di un vecchio. Essendo rimasto stupito da questa apparizione il contadino, e avendo levato un alto grido di meraviglia, accorse molta gente, e in poco tempo tutta l'Etruria si radunò colà.


mandragora pietro andrea mattioli gherardo cibo
Mandragora da I discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia medicinale, dipinto da Gherardo Cibo

La mandragora è una pianta di natura umana che nasce dalla terra e vive di terra, guai ad estirparla. Si ribella se non si compiono particolari riti. Vi fa esplicito riferimento l’Erbario della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.


Si deve cogliere la mandragola de mazo a tri dì de la luna e dopo averla legata picha lo cane e sta molto lontano siche tu non aoldi lo rumore de la tempesta. Altrettanto il manoscritto Aldini della Biblioteca Universitaria di Pavia: colligitur de mense maii, die tertia lune. Nell’erbario in volgare della prima metà del XV sec. della Biblioteca Medicea Laurenziana, un diavolo cornuto, alato e nudo suona una lunga tuba da cui emette fuoco e fiamme. 

Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, I secolo d.C., scrive nel De bello judaico (lib. VII 6,3) quanto già aleggia nell’immaginario. Vi è un luogo chiamato Baaras, ove cresce una radice che ha lo stesso nome. Difficile da afferrare e cogliere, foriera di morte se non si ricorre a qualche stratagemma. Si scava la terra tutt’intorno lasciando coperta soltanto una piccolissima parte della radice. Poi vi si lega un cane e, quando questo si slancia per seguire chi lo ha legato, la radice ne viene facilmente strappata via, ma il cane muore immediatamente, come una vittima offerta in luogo di chi raccoglierà la pianta. Nonostante i pericoli questa pianta è ricercata per la sua proprietà: basta solo avvicinarla a chi ne è afflitto per liberarlo immediatamente dai cosiddetti demoni, i quali sono spiriti di uomini malvagi che penetrano nei corpi dei viventi e li uccidono se non li si soccorre.


Claudio Eliano (170-235 d.C.) chiama la mandragora Kynospastos, colei che viene estirpata dal cane; d’altra parte è nota presso i latini con il nome di mala canina. Il sacrificio del cane è indispensabile; soltanto dopo la sua morte si può portare a casa il cinospasto, il quale (lib. XIV, 27) può guarire gli uomini da quella malattia provocata dall’influsso lunare (epilessia); è efficace anche in quella affezione oculare caratterizzata da un umore che copre gli occhi e che, congelandosi, li priva della vista (cataratta).


Alberto Magno [1200-1280], vescovo, uomo di cultura eccezionalmente vasta e di carattere enciclopedico scrive nel De Vegetabilibus a proposito della mandragora [hominis imago] narcoticam habens virtutem ... qui autem secandus est et membris mutilandus, bibat ex ea cum vino, et tune dormiens secabitur sine sensu, gode di azione narcotica ... quando si deve tagliare e mutilare si fa bere una pozione preparata con il vino, il paziente subito si addormenta e perdendo i sensi può subire l’intervento.

Molti enciclopedisti di quest’epoca conoscono la pianta della mandragora non per esperienza diretta. Le notizie provengono dall’osservazione di exiccata e da fonti come i lavori di Avicenna e di Costantino l’Africano. La mandragora deve buona parte della sua notarietà a quanto Teofrasto scrive. Mandragoram quoque ense ter circumscribere iubent et alterum succidere ad occasum spectando: alterum circumsaltare plurimaque de re venerea dicere quod maledictis et execrationibus sane proximum est.

Teofrasto (371-287 a.C.) è il primo rhizotomo a suggerire le precauzioni necessarie per la raccolta della mandragora. Deve porsi sopravvento, deve tracciare attorno alla pianta tre cerchi con la spada e poi, quando estrae la pianta, deve guardare a occidente mentre una seconda persona danza tutt’attorno. Riconosce a questa pianta la capacità di sanare le ulcere, di portare sollievo ai sofferenti di erisipela e di dolori podagrici, di favorire il sonno e di esaltare le cose amatorie.


Plinio (lib. XXV, 94) riporta le stesse modalità: coloro che devono cogliere quest’erba stanno attenti a non avere il vento contrario e tracciano prima, tutto intorno, tre cerchi con la spada, poi la dissotterano guardando verso occidente. 

Si elabora nell’XI secolo nello scriptorium di Montecassino il De Universo aut de rerum natura (Cod. Cass. 132) scritto verso l’844 da Rabanus Maurus, monaco benedettino di Fulda in Germania.


Nel capitolo De Medicina et Morbis, l’illustrazione della mandragora narra la vicenda del rizotomo che, abbandonata la zappa e tappatosi le orecchie, lascia all’ignaro cane, legato alla pianta, l’ingrato e mortale compito di estirparla dal terreno.

Nel 1500 si alzano voci discordanti sulle modalità di raccolta. Pietro Antonio Michiel ne I cinque libri di piante scritti attorno al 1550: benchè favolosamente si dice che ci vuole il cane che cavi la radice altramente si scoreno [si corre] pericolo, io l’ho cavata infinite volte senza lesione alcuna.

......Perchè fermarsi qui?

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Giovanna Masini

  • erbefiori
  • 21 nov 2024
  • Tempo di lettura: 1 min


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